mercoledì 9 giugno 2010

Un estratto del prossimo romanzo di Davide Musso

Oggi sono in vena di esperimenti. Al posto dei consueti racconti voglio proporre una scena del nuovo romanzo a cui sta lavorando lo scrittore Davide Musso. Si tratta di un flashback in cui i protagonisti Carlos e Raf sono ancora due ragazzini molto uniti che vanno a zonzo e ne combinano una dietro l'altra. Una storia in bello stile assolutamente da leggere... quando uscirà. 



Flashback #1 
di Davide Musso 

Il Pichincha soffiava fumo e cenere sulle strade. Raf aveva alzato la testa verso la cima del vulcano, la bocca del cratere soffocata dalle nuvole, e si era asciugato il sudore con il dorso della mano. Tra lui e Carlos - tra la vittoria e la sconfitta - c'erano soltanto quattro metri d'asfalto polveroso. Aveva chiuso gli occhi e aveva tirato con tutte le sue forze. Il pallone aveva disegnato in aria una parabola perfetta.
Carlos si era staccato da terra, la schiena inarcata, con la punta delle dita era quasi riuscito a toccare la palla, ma quella aveva proseguito la sua corsa come un proiettile, schiantandosi sulla vetrina della tienda comunitaria che era andata in mille pezzi, e il rumore, per un attimo, aveva zittito il ribollire sordo della città. Era atterrata sui vetri in frantumi, la palla maledetta, tra sacchi di riso e caffè, platanos e manghi, barattoli di marmellata e lingotti di zucchero bruno. Tía Pepita si era fiondata fuori dal negozio, le mani tra i capelli stopposi.
“Che avete fatto! Delinquenti!”
“Cazzo, Raf!”
I due avevano iniziato a correre e avevano preso il vicolo sulla destra, verso il mercato. Si erano voltati a controllare che nessuno li seguisse (il nipote di Pepita, quel rottinculo, o il negro armato che controllava l'ingresso del negozio), ma sotto l'insegna scolorita, inchiodata sulla soglia, c'era solo la vecchia: “Vi conosco!”, gridava con i pugni al cielo. “So chi siete!”.
“Te l'avevo detto”
“Cosa”
“Che non avresti segnato”
“Se non era un gol quello!”
“Ma che dici? Hai visto cos'hai combinato? Cristo, abbiamo pure perso la palla!”
Una volta in piazza era stato facile sparire in mezzo agli ambulanti, alle bancarelle colorate, alle donne con le ceste sulla testa, dribblando i mocciosi che chiedevano dinero in cambio di una manciata di dolci.
I due avevano ripreso fiato davanti a una banco di frutta, avevano fatto sparire un paio di banane sotto le magliette ed erano ripartiti alla volta dell'Iglesia de San Francisco, che attirava turisti come mosche ed era un buon posto per gli affari. Oltrepassare l'ingresso era un'impresa, tra venditori di santini e madonne di plastica, storpi con la mano tesa e la bava alla bocca, donne indigene che vendevano biglietti della lotteria per un dollaro, madri strappalacrime, sedute a terra, scalze, i vestiti laceri e, accanto, una collezione infinita di confezioni di medicinali: con gli stranieri il vecchio trucco dei sensi di colpa funzionava quasi sempre.
Carlos e Raf avevano spinto il portone di legno intarsiato, si erano segnati e avevano raggiunto il primo confessionale sulla sinistra. Turisti in bermuda si aggiravano tra le pareti annerite dal fumo delle candele e gli ex-voto che ricoprivano le colonne della navata centrale, mentre un vecchio prete cercava di portare a termine la funzione del pomeriggio. Raf aveva scostato il drappo viola del confessionale, aveva cacciato la testa nel vano buio e ne era riemerso con due scatole di legno lunghe un paio spanne, profonde la metà, e una maniglia sul lato superiore aperto. Aveva passato uno dei due contenitori a Carlos ed erano usciti sul sagrato accecato dal sole.
“Be'?” aveva chiesto Raf.
“Che ne dici di quelli?”. L'amico aveva indicato una coppietta seduta a uno dei tavolini in mezzo alla piazza.
“Perfetti”
I ragazzini si erano avvicinati agli ombrelloni del bar. L'area era delimitata da una recinzione in ferro alta un metro, controllata a vista da una guardia privata: divisa nera, anfibi, pistola automatica alla cintura e aria minacciosa. Il tavolo più vicino alla recinzione era occupato dalla classica coppia di polli da spennare. Ormai a Carlos e Raf bastava un'occhiata per riconoscerli.
Lui: una settantina d'anni, occhi acquosi da triglia innamorata, ridicoli bermuda bianchi e camicia kaki tipo safari africano. Al collo, costosa macchina fotografica giapponese.
Lei: trent'anni in meno, fisico palestrato, curve pericolose, capelli biondo platino, sguardo da pescecane. Indossava un abitino di cotone leggero che lasciava poco spazio all'immaginazione, occhiali da sole a specchio, ventaglio. All'anulare destro, un vistoso diamante esibito con incoscienza.
Raf si era sporto verso la señorita: “Scarpe?”, aveva detto sfoderando una spazzola consunta e il suo sorriso migliore. Lei non lo aveva degnato di uno sguardo.
“Ho un prodotto speciale”, aveva insistito.
Il vecchio si era cacciato le mani in tasca, aveva estratto qualche monetina e gliel'aveva lanciata.
“Ehi”, era scattato Carlos, “ci hai preso per due morti di fame? Eh? Per due pezzenti? Non siamo due morti di fame, vecchio rimbambito”. Poi aveva fatto per scavalcare la recinzione, ma una stretta sulla spalla lo aveva fermato.
“Piantala”. La voce non ammetteva repliche, I due ragazzini si erano voltati lentamente: la bocca spalancata di una pistola li puntava minacciosa.
“Calmati”. Raf aveva alzato la mano come uno scudo.
“Cos'hai bello, sei nervoso?”. Ora era quel matto di Carlos a parlare. “Anche tua madre l'altra notte era un po' nervosa, ma le ho dato una bella ripassata”.
“Sparite!”, aveva ringhiato la guardia.
I due avevano iniziato a indietreggiare: “Tranquillo”, aveva detto Raf. “Stava solo scherzando, ok?”.
Poi si erano messi a correre tagliando la piazza in diagonale. Si erano fermati appena dietro l'angolo.
“Questa volta hai esagerato”
“Che dici? Ha iniziato lui!”. Carlos era paonazzo.
“Lo sai che quelli prendono soldi dagli sbirri, no? Vuoi rendergli il lavoro più semplice?”
“Guarda”, aveva tagliato corto Carlos. Aveva fatto un cenno con la testa in direzione della coppietta che aveva appena lasciato il bar e si dirigeva verso il parco a sud dell'Iglesia. A vederli così, con le braccia intrecciate dietro la schiena, sembravano davvero innamorati.
Raf aveva fissato l'amico, fingendo di non capire.
“Be'?”, l'aveva scosso Carlos, e si era ributtato sulla piazza senza aspettare la risposta. Aveva raggiunto i due gringos mantenendosi a distanza di sicurezza. Raf lo seguiva, e sapeva che stavano per cacciarsi in un altro guaio.
All'improvviso Carlos era scattato in avanti, aveva tirato una spallata alla biondona che aveva vacillato sui tacchi e si era messa a strillare come un'aquila, aveva sventolato le braccia in aria per recuperare l'equilibrio e - finalmente - era rovinata a terra sbattendo il culo sul selciato. Il marito si era chinato per aiutarla e a quel punto Carlos gli aveva sfilato la macchina fotografica dal collo, poi aveva ripreso a correre come un dannato. Il vecchio si era alzato di scatto e aveva fatto in tempo a incrociare gli occhi sbarrati di Raf: “E' lui!”, si era messo a urlare. “Fermatelo!”.
Ma il ragazzino era già sparito nella folla.

 
Davide Musso è nato a Milano nel 1974. Ha pubblicato, tra l’altro, la raccolta di racconti Vita di traverso (Gaffi editore). Un suo racconto inedito è incluso nell’antologia Giovani Cosmetici (Sartorio editore) ed è uno dei 330 autori del Dizionario affettivo della lingua italiana  (Fandango libri a cura di Matteo B. Bianchi e Giorgio Vasta. Questo brano è tratto da un romanzo cui sta lavorando. Il suo sito è http://leparole.terre.it/

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